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Fideiussione bancaria ABI è affetta da nullità totale
Fideiussione bancaria ABI è affetta da n
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LA FIDEIUSSIONE

 

Particolarmente diffusa nel settore bancario la fideiussione così detta “omnibus” è una garanzia personale che, se stipulata, impone al fideiussore il pagamento non di un singolo e specifico debito altrui, ma genericamente il pagamento di tutti i debiti, presenti e futuri, che il debitore principale ha assunto o, peggio ancora, assumerà nei confronti del creditore (nella prassi spesso un istituto di credito) in dipendenza di qualsivoglia operazione.

Tale fattispecie - proprio per l’aleatorietà che la caratterizza - è stata coniata sulla falsariga della fideiussione per obbligazioni future, di cui agli articoli 1938 e 1956 C.C e non figura espressamente tra le garanzie personali tipiche del nostro ordinamento giuridico.

La fideiussione omnibus è stata al centro di un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, negli anni ’70 e ’80, in ordine alla sua stessa ammissibilità, essendo sorto il dubbio che questa tipologia di garanzia potesse porsi in contrasto con l’esigenza che qualsiasi contratto deve sempre avere un oggetto determinato o comunque determinabile, ai sensi del combinato disposto degli articoli 1346 e 1418 C.C.

A porre fine alla vexata quaestio è intervenuto il Legislatore che, con la Legge n° 154/1992 - sulla trasparenza delle operazioni bancarie – ha modificato il testo dell’articolo 1938 C.C, imponendo per le fideiussioni prestate a garanzia di obbligazioni future, la fissazione di un importo massimo garantito, all’evidente fine di limitare quantitativamente l’impegno assunto dal fideiussore.

Essendo riconducibili a tale norma imperativa del codice anche le fideiussioni omnibus, deve concludersi che esse siano valide solo se le parti pattuiscano il tetto massimo entro il quale la garanzia può e deve operare.

Diversamente, in assenza di apposita dichiarazione espressa del garante, la fideiussione deve ritenersi nulla.

La giurisprudenza di fine anni ’90, tuttavia, non ha ritenuto propriamente risolto il problema della indeterminabilità dell’oggetto in questa particolare tipologia di fideiussione, né lo strapotere delle banche del tutto arginato.

Sono così intervenute alcune pronunce dei giudici di merito che hanno per esempio evidenziato la necessità di quantomeno individuare nel contratto di fideiussione omnibus il tipo di obbligazioni che - nei limiti dell'importo predeterminato - il fideiussore si obbliga a garantire (Tribunale Savona, 11.3.1999).

Secondo altri esponenti, il massimale della fideiussione dovrebbe essere concretamente concordato tra istituto bancario e garante in proporzione alla normale e prevedibile attività del debitore ed alle sue potenzialità economiche, nonché in conformità ai principi di buona fede e correttezza (in tal senso l’Autorità garante concorrenza/mercato, parere n° 14251/2005).

Sulla scia di tale orientamento, i giudici di legittimità, hanno infatti ritenuto che “la rispondenza dei contratti di fideiussione così detta omnibus alla prescrizione normativa (e dunque la legittimità della garanzia) debba, in effetti, essere accuratamente valutata nel merito, per verificare e accertare che la indicazione di un importo limite sproporzionatamente elevato non si traduca, nella sostanza, in una limitazione solo apparente e, dunque, nella sostanziale elusione della norma” (Cassazione Civile n° 27005/2008).

Verifica che, nella pratica, si concretizza nel rispetto, da ambedue le parti contrattuali – fideiussore e creditore - dei principi di correttezza e buona fede che ispirano l’intero sistema di diritto positivo.

Nell’ambito delle fideiussioni omnibus, la banca ha peraltro un particolare onere di controllo della situazione finanziaria del debitore, non potendo, nell’accordare la fideiussione, limitarsi a fare affidamento esclusivamente sul patrimonio del garante, a fronte della manifesta incapienza del patrimonio dell’obbligato principale.

La Cassazione ha, infatti,affermato che “l'istituto di credito, ancorché garantito da fideiussione, ha il dovere di comportarsi nei confronti del debitore principale secondo i criteri di una sana gestione del credito e che si ha un comportamento contrario alla buona fede (oggettiva) - sanzionato con l'inefficacia della garanzia fideiussoria - se, nonostante la prevedibile inadempienza del debitore, il creditore decide di procedere all'operazione fidando soltanto nella responsabilità del fideiussore " (Cassazione Civile n° 6414/1998).

Naturalmente, il grado di diligenza richiesto alla banca, nella valutazione delle condizioni economiche del debitore, è particolarmente rigoroso in considerazione della professionalità che è legittimo pretendere da chi gestisce la raccolta del risparmio e l'esercizio del credito. Il garante, invece, qualificato come “soggetto debole”, può invocare una tutela giuridica nel caso in cui la banca adotti, in un momento successivo alla stipula della fideiussione, una condotta negligente/fraudolente a suo danno.

Il Codice Civile, infatti, all’articolo 1956, prevede un particolare rimedio “sanzionatorio” - consistente nella liberazione del fideiussore dal vincolo di garanzia - quando le banca continui, senza speciale autorizzazione del fideiussore, a “far credito” al debitore, pur essendo a conoscenza delle condizioni patrimoniali di quest’ultimo tali da rendere notevolmente più difficile il soddisfacimento del credito da parte del garante.

Perché esso operi occorre, da un lato, la condotta materiale della banca che faccia credito al debitore - l’elemento oggettivo - concedendogli cioè ulteriori finanziamenti o, semplicemente, mantenendo in essere il credito già concesso; dall’altra, la consapevolezza - l’elemento soggettivo - della banca che le condizioni economiche del suo obbligato principale sono mutate rispetto all’epoca della prestazione della garanzia.

Ulteriore corollario del principio di correttezza e buona fede è, infine, l’onere di verifica, da parte dell’istituto di credito, delle condizioni economiche del fideiussore.

Tale principio, ormai assodato in ambito dottrinale, trova la propria ratio alla luce del fatto che ex articolo 1936 C.C, il contratto di fideiussione interviene tra il fideiussore e il creditore, mentre il debitore, salvo diverse intese tra le parti, resta ad esso estraneo.

Del tutto illogico sarebbe, dunque, per la banca accordare al garante una fideiussione “a scatola chiusa” senza una previa verifica delle potenzialità finanziarie del suo interlocutore.

In conclusione, è ragionevole affermare come la fideiussione omnibus rappresenti uno strumento di garanzia tanto efficace nella dinamica imprenditoriale, quanto rischioso per il garante se non oculatamente stipulato nel rispetto della normativa codice del buonsenso delle parti contrattuali.

 

LE CLAUSOLE VESSATORIE

 

La disciplina generale delle clausole così dette "vessatorie" è prevista dall'articolo 1341 CC dedicato alle "Condizioni generali di contratto", il quale al secondo comma dispone che "in ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità , facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l'esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell'altro contraente decadenze , limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi , tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria".

Le suddette clausole, tassativamente elencate dal legislatore del '42, proprio perché producono un forte squilibrio fra le parti, sono considerate, dunque, inefficaci, se non approvate per iscritto (Cassazione n° 11594/2010).

Tuttavia, la crescente diffusione dei così detti "contratti per adesione" (e "a distanza"), generalmente stipulati con banche, assicurazioni o società di comunicazioni che offrono i propri servizi a condizioni predeterminate (su moduli o formulari), mentre l'altro contraente (utente, consumatore), si limita ad aderire automaticamente alla sottoscrizione, ha spinto il legislatore a cercare di sanare questo squilibrio, prevedendo una maggiore tutela nei confronti della parte più debole contrattualmente.

In considerazione di ciò, alla regola generale di cui all'articolo 1341 CC è stata affiancata una disciplina specifica delle clausole vessatorie, con l'aggiunta del capo XIV bis al C.C. ("Dei contratti del consumatore") composto da 5 articoli (dal 1469-bis al 1469-sexies).

Sulla spinta delle direttive comunitarie, tale disciplina è stata però successivamente sostituita dal nuovo "Codice del Consumo" (D.LGS n° 206/2005), il quale, novellando l'articolo 1469-bis CC e, parallelamente, abrogando le norme immediatamente successive, si occupa (articoli 33-38-139-141) delle clausole vessatorie nei rapporti tra professionisti e consumatori, sanzionandole non più con la mera inefficacia ma con la nullità.

 

La vessatorietà nel Codice del consumo

Ex articolo 33 Codice Consumo, nel contratto concluso tra il consumatore, definito all'articolo 3 quale "persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta", ed il professionista, si considerano vessatorie le clausole che "malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto".

Al fine di eliminare questo squilibrio, gravante sul consumatore, quale parte economicamente più debole, la clausola o le clausole considerate vessatorie, ex articoli 33 e 34 Codice Consumo, sono sanzionate con la nullità, mentre il contratto rimane valido per il resto (articolo 36).

Secondo il comma 3 dell'articolo 36, la nullità opera a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d'ufficio dal giudice.

La vessatorietà di una clausola viene stabilita tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto, sulla base delle circostanze esistenti al momento della sua conclusione, delle altre clausole contenute nello stesso ovvero in altro contratto ad esso collegato (articolo 34).

Ad ogni modo, le clausole contenute per iscritto nel contratto proposto al consumatore, devono essere redatte in modo chiaro e comprensibile: in caso di dubbio prevale sempre l'interpretazione più favorevole all'utente (articolo 35).

 

Le tipologie di clausole vessatorie

Al 2° comma l'articolo. 33 del D.LGS n° 206/2005 indica esplicitamente le clausole che si presumono vessatorie, fino a prova contraria. Tra le diverse ipotesi enucleate dalla norma rilevano, in particolare, le clausole volte ad escludere o imitare:

la responsabilità del professionista in caso di danno (o morte) alla persona del consumatore dovuta ad un'azione o omissione dello stesso;

le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista in caso di inadempimento (totale o parziale) o di adempimento inesatto;

l'opportunità da parte del consumatore della compensazione di un debito nei confronti del professionista con un credito vantato nei confronti di quest'ultimo.

Rilevano, altresì, le clausole volte a:

prevedere un impegno da parte del consumatore subordinando, viceversa, l'esecuzione della prestazione del professionista ad una condizione dipendente unicamente dalla sua volontà;

riconoscere solo al professionista la facoltà di recedere dal contratto e consentirgli di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore in caso di recesso o mancata conclusione del contratto da parte di quest'ultimo (senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma, laddove sia quest'ultimo a non concludere il contratto o a recedere);

consentire al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole preavviso, tranne nel caso di giusta causa (ecc.).

In deroga alle disposizioni di cui al comma 2, i successivi commi 3 e 4 dell'articolo 33 introducono esplicite eccezioni per i contratti che hanno ad oggetto le prestazioni di servizi finanziari, nei quali è consentito al professionista, in presenza di un giustificato motivo e previa comunicazione al consumatore:

recedere senza preavviso; modificare le condizioni del contratto o il tasso di interesse e l'importo di qualunque altro onere originariamente convenuto (con relativo diritto del consumatore di recedere).

Non rientrano, altresì, tra le clausole vessatorie, le condizioni che riproducono disposizioni di legge o norme e principi contenuti in convenzioni internazionali delle quali siano parti contraenti gli Stati membri dell'Unione Europea (articolo 34).

Valgono ad escludere, inoltre, la vessatorietà, le eventuali trattative tra le parti.

L'articolo 34 sancisce, infatti, che "non sono vessatorie le clausole o gli elementi di clausola che siano stati oggetto di trattativa individuale".

Tuttavia, il punto 2 dell'articolo 36, in deroga alla suddetta disposizione, indica tassativamente affette da nullità, ancorchè oggetto di trattativa, le seguenti tre clausole, aventi per oggetto o per effetto di:

a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un'omissione del professionista;

b) escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;

c) prevedere l'adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto".

 

Il rapporto tra la disciplina ex articolo 1341 C.C. e il Codice del Consumo

La normativa prevista in materia di clausole vessatorie dall'articolo 1341 CC, nonché dal successivo articolo 1342 CC relativo ai contratti conclusi mediante formulari o modulari (che rimanda espressamente alle disposizioni dettate dal primo), costituisce disciplina generale applicabile a qualsiasi negozio stipulato tra una parte predisponente, qualunque sia la sua qualifica professionale, e il contraente che vi aderisce (così detti contratti "B2B" tra imprese e "C2C" tra privati), mentre quella dettata dagli articoli 33 e seguenti Codice Consumo è circoscritta all'ambito di applicazione soggettivo dei contratti tra professionisti e consumatori (così detti contratti "B2C", Business to Consumer).

Le due discipline, pertanto, non si sovrappongono ma si integrano l'un l'altra.

Sul piano pratico, infatti, la presenza di una clausola vessatoria che rientri nel campo di applicazione degli articoli 1341 e seguenti CC soggiacerà alla disciplina codicistica, ben potendo, laddove inerisca sul piano soggettivo all'ambito previsto da Codice Consumo, trovare applicazione la disciplina, più incisiva, ivi contenuta (la quale, peraltro, per quanto non previsto dallo stesso, rinvia espressamente alle disposizioni del codice civile, ex articolo 38, come novellato dal D.LGS n° 221/2007).

Ad ogni modo, tra le due discipline sussistono elementi comuni e differenziali che meritano di essere sottolineati.

La prima distinzione rileva sul piano "sanzionatorio": mentre le clausole tassativamente elencate nell'articolo 1341 CC e quelle aggiunte nei contratti conclusi mediante moduli o formulari ex articolo 1342 CC sono inefficaci, salvo specifica approvazione per iscritto (Cassazione n° 11361/2010), quelle espressamente indicate dagli articoli 33 e seguenti Codice Consumo sono da considerarsi nulle (a prescindere da qualsiasi sottoscrizione).

Altra azione è rintracciabile in ordine al profilo della rilevabilità ex officio, testualmente prevista dall'articolo 36, 3° comma, Codice Consumo preclusa nella disciplina codicistica (Cassazione n° 11213/1991).

L'articolo 35 del D.LGS n° 206/2005 detta, inoltre, il così detto "principio della trasparenza" delle clausole che devono essere formulate in modo chiaro e comprensibile, mentre non è rintracciabile una tale disposizione negli articoli 1341 e 1342 CC

Elemento comune ad ambedue le discipline è la "trattativa individuale"considerata idonea ad escludere il carattere vessatorio delle clausole, in ragione del venir meno dell'unilateralità della predisposizione contrattuale, come espressamente indicato dall'articolo 34, comma 4, Codice Consumo e desumibile dai principi civilistici.

Tuttavia, se ciò vale in via generale, non sempre la contrattazione specifica elimina la vessatorietà: l'articolo 36 Codice Consumo esclude, infatti, in ogni caso, l'efficacia delle clausole nelle tre ipotesi nello stesso elencate, quantunque oggetto di trattativa tra le parti.

Infine, rilevano i rimedi concessi ai consumatori solamente in materia di clausole abusive ex artcoli 33 e seguenti Codice Consumo i quali, oltre all'azione di accertamento della nullità, hanno a disposizione anche la tutela inibitoria di cui all'articolo 37, nonché quella amministrativa, affidata a Autorità Garante Concorrenza/Mercato, di cui al successivo articolo 37-bis (introdotto da articolo 5, comma 1, DL n° 1/2012 convertito in L n° 27/2012).

 

Giurisprudenza in materia di clausole vessatorie

Cassazione civile sezione. II 21/03/2014 n. 6784

La nullità di una clausola vessatoria di un contratto, in cui una delle parti è un consumatore e che può essere rilevata anche d'ufficio dal giudice, opera solo a vantaggio del consumatore e non travolge l'intero rapporto contrattuale limitandosi solo a rendere inefficace tale clausola

Cassazione civile sezione II 21/03/2014 n. 6784

La nullità di una clausola vessatoria di un contratto, in cui una delle parti è un consumatore e che può essere rilevata anche d'ufficio dal giudice, opera solo a vantaggio del consumatore e non travolge l'intero rapporto contrattuale limitandosi solo a rendere inefficace tale clausola

Cassazione civile sezione VI 24/01/2014 n. 1464

Nelle controversie tra consumatori e professionisti (nella specie tra avvocato e cliente) la competenza territoriale esclusiva spetta, ex articolo 1469-bis CC, al giudice del luogo della sede o del domicilio elettivo del consumatore, ritenendosi vessatorie le clausole con le quali si individua come sede del foro competente una diversa località. A beneficiare di tale disciplina è il consumatore, da intendersi come la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze di vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività.

Cassazione civile sezione VI 18/09/2013 n. 21419

Il contratto di albergo - che costituisce un contratto atipico o misto, con il quale l'albergatore si impegna a fornire al cliente, dietro corrispettivo, una serie di prestazioni eterogenee, quali la locazione di alloggio, la fornitura di servizi o il deposito - soggiace alla disciplina generale dei contratti dei consumatori quanto all'individuazione del giudice inderogabilmente competente - da individuarsi in quello del luogo della residenza (o del domicilio) del consumatore - ove il cliente persona fisica lo abbia stipulato per la soddisfazione di sue esigenze della vita quotidiana, estranee all'esercizio della propria eventuale attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale; e tanto anche se non possa configurarsi un contratto di pacchetto turistico, essendo la disciplina relativa a quest'ultima speciale ed ulteriore a quella generale dei contratti del consumatore

Cassazione civile sezione I 03/07/2013 n. 16620

La clausola contrattuale che sottoponga il sorgere del diritto al compenso da parte del professionista incaricato del progetto di un'opera all'intervenuto finanziamento dell'opera progettata non limita la responsabilità del committente il progetto, giacché non influisce sulle conseguenze del suo eventuale inadempimento, ma piuttosto delimita il contenuto del mandato conferito, facendo derivare i diritti del mandatario dal progetto finanziato e non dal progetto solo redatto; ne consegue che una clausola siffatta, non incidendo sulle conseguenze dell'inadempimento del predisponente, non può ritenersi vessatoria e non è, pertanto, abbisognevole di specifica approvazione per iscritto.

Cassazione civile sezione I 03/07/2013 n. 16620

La clausola contrattuale che sottoponga il sorgere del diritto al compenso da parte del professionista incaricato del progetto di un'opera all'intervenuto finanziamento dell'opera progettata non limita la responsabilità del committente il progetto, giacché non influisce sulle conseguenze del suo eventuale inadempimento, ma piuttosto delimita il contenuto del mandato conferito, facendo derivare i diritti del mandatario dal progetto finanziato e non dal progetto solo redatto. Deriva da quanto precede, pertanto che una clausola siffatta, non incidendo sulle conseguenze dell'inadempimento del predisponente, non può ritenersi vessatoria e non è, pertanto, abbisognevole di specifica approvazione per iscritto.

Cassazione civile sezione III 04/06/2013 n. 14038

L'esclusione della facoltà di recesso da un contratto non costituisce clausola vessatoria, ai sensi dell'art. 1341, secondo comma, cod. civ., e, pertanto, non è necessaria per la sua efficacia la specifica approvazione per iscritto, dal momento che l'elencazione contenuta nella norma suddetta non è soggetta ad interpretazione analogica, ma solo estensiva ed in essa non solo non è prevista l'ipotesi della rinuncia al recesso, ma neppure è contemplato alcun caso che a questa possa essere assimilato.

Cassazione civile sezione I 19/10/2012 n. 18041

Quando i contraenti fanno riferimento alla disciplina fissata in un distinto documento al fine dell'integrazione della regolamentazione negoziale, le previsioni di quella disciplina si intendono conosciute e approvate "per relationem", assumendo pertanto il valore di clausole concordate senza necessità di una specifica approvazione per iscritto ai sensi dell'articolo 1341 CC.

Cassazione civile sezione VI 20/08/2012 n. 14570

In tema di condizioni generali di contratto, essendo la specifica approvazione per iscritto delle clausole cosiddette vessatorie (nella specie: clausola compromissoria), ai sensi dell'articolo 1341, comma 2, CC, requisito per l'opponibilità delle clausole medesime al contraente aderente, quest'ultimo è il solo legittimato a farne valere l'eventuale mancanza, sicché la nullità di una clausola onerosa senza specifica approvazione scritta dell'aderente non può essere invocata dal predisponente.

Cassazione civile sezione III 26/06/2012 n. 10619

Nel contratto di assicurazione sono da considerare clausole limitative della responsabilità, per gli effetti dell'articolo 1341 CC, solo quelle clausole che limitano le conseguenze della colpa o dell'inadempimento o che escludono il rischio garantito mentre attengono all'oggetto del contratto, e non sono perciò, assoggettate al regime previsto dal comma 2, di detta norma, le clausole che riguardano il contenuto ed i limiti della garanzia assicurativa e, dunque, specificano il rischio garantito (nella specie, la Corte ha escluso il carattere vessatorio di una clausola del contratto che limitava a quattro anni la copertura assicurativa per le richieste di risarcimento pervenute all'assicurato per effetto di errate visure).

 

 

Le clausole vessatorie nel contratto di fideiussione

 

SI TRATTA DI NORME DI CUI SI È DISCUSSO A LUNGO, IN PARTICOLARE, SULLA LORO NATURA COGENTE O MENO E SULLA NATURA VESSATORIA O MENO DELLE EVENTUALI CLAUSOLE CONTRATTUALI IN MATERIA. SE, AD ESEMPIO È PACIFICO CHE L’ARTICOLO 1956 CC SIA UNA NORMA COGENTE SOTTRATTA ALL’AUTONOMIA CONTRATTUALE E CHE, COMUNQUE, NON PUÒ AUTORIZZARE A SOTTRARSI AGLI OBBLIGHI GENERALI DI CORRETTEZZA E BUONA FEDE (CASSAZIONE N° 5481/1997), È AMPIAMENTE AMMESSA LA DEROGA CONVENZIONALE ALL’ARTICOLO 1957 CC (CASSAZIONE N° 12456/1997); NULLA TOGLIE CHE, IN TAL CASO, SIFFATTA DEROGA POSSA VENIR CLASSIFICATA COME VESSATORIA EX ARTICOLO 1341 CC. AL CONTRARIO, L’APPLICABILITÀ DELLE NORME EX ARTICOLO 1469 BIS E SEGUENTI CC AL CONTRATTO DI FIDEIUSSIONE NON RISULTA COSÌ SCONTATA.

In particolare, sorge il problema di individuare quale soggetto debba rivestire la qualità di consumatore richiesta dalla normativa, cioè se tale qualità debba essere rivestita dal debitore principale, dal fideiussore o da entrambi.

Prima della Legge n° 526/1999, che ha riformulato l’articolo 1469 bis CC, non era certamente possibile inquadrare la fideiussione tra i contratti che hanno “per oggetto la cessione di beni e la prestazione di servizi”.

La Corte Cassazione, nella sentenza n° 314/2001, risolve entrambi i problemi ricercando i presupposti oggettivi e soggettivi, richiesti dall’articolo 1469 bis CC, facendo esclusivo riferimento all’obbligazione principale garantita, a cui la fideiussione è legata da un vincolo di accessorietà e collegamento.

La problematicità della natura vessatoria della clausola in deroga alla disciplina codicistica della fideiussione si pone in particolare nel caso in cui il creditore sia un istituto di cred

 

 

 

 

 

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III CIVILE

SENTENZA 29 novembre 2011, n° 25212

 

 

1. Nell'ipotesi di fideiussione che accede a contratti bancari deve ritenersi sussistente il requisito oggettivo per l'applicabilità della disciplina delle clausola abusive in ragione del collegamento contrattuale che intercorre tra il contratto costitutivo del debito principale garantito e quello costitutivo dell'obbligazione fideiussoria. Quanto al requisito soggettivo di applicabilità della medesima disciplina, la qualità del debitore principale attrae quella del fideiussore ai fini della individuazione del soggetto che deve rivestire la qualità di consumatore. Pertanto, l'applicabilità della tutela del consumatore è esclusa quando il contratto di fideiussione sia concluso da una persona fisica che non agisce nell'ambito di un'attività professionale, ma a garanzia di un debito contratto da un soggetto che agisce nell'ambito della sua attività professionale

2. In presenza di un contratto di fideiussione è all'obbligazione garantita che deve riferirsi il requisito soggettivo ai fini dell'applicabilità della specifica normativa in materia di tutela del consumatore, attesa l'accessorietà dell'obbligazione del fideiussore all'obbligazione garantita

3. Al fine dell'applicazione della disciplina di cui agli articoli 1469 bis e seguenti CC relativa ai contratti del consumatore, deve essere considerato "consumatore" la persona fisica che, pur svolgendo attività imprenditoriale o professionale, conclude un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività, mentre deve essere considerato "professionista" tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, che, invece, utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale.

 

 

Con sentenza del 2-4-2009 la Corte Appello Milano ha rigettato l'impugnazione proposta da F.V. avverso la sentenza del Tribunale che, nel respingere l'opposizione a decreto ingiuntivo proposta nei confronti della LOCAT SPA, lo ha condannato, quale fideiussore di un contratto di leasing stipulato dalla Gestassi Service s.p.a. al pagamento dei canoni residui del contratto risoltosi per inadempimento.

La Corte Appello ha ritenuto non applicabile la disciplina di cui all'articolo 1469 bis CC in materia di nullità di clausole vessatorie, sul rilievo che il contratto di leasing era stato concluso da una società nell'ambito dell'attività di impresa, disciplina ritenuta estensibile anche al collegato contratto di fideiussione.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione V.F. con tre motivi.

Resiste con contro ricorso la LOCAT SPA

Motivi della decisione

1. Con il 1° motivo si denunzia violazione di norme di diritto in relazione all'articolo 360 n° 3 CPC sul rilievo che la Corte Appello avrebbe dovuto ritenere applicabile la normativa per la tutela del 'consumatore', essendo stato il contratto di leasing stipulato da una persona giuridica, ma per uno scopo estraneo all'attività di impresa.

2. Con il secondo motivo si denunzia insufficienza e contraddittorietà di motivazione per non aver la Corte di merito considerato che la società contraente era una società assicuratrice e che l'uso di un'autovettura non rientrava nella sua attività professionale.

3. I due motivi si esaminano congiuntamente per la stretta connessione logico giuridica e sono infondati.

Secondo giurisprudenza costante di questa Corte, al fine dell'applicazione della disciplina di cui agli articoli 1469 bis e seguenti CC relativa ai contratti del consumatore, deve essere considerato 'consumatore' la persona fisica che, pur svolgendo attività imprenditoriale o professionale, conclude un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività, mentre deve essere considerato 'professionista' tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, che, invece, utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale, Cassazione n° 10127/2001; Cassazione n° 11933/2006; Cassazione n° 13643/2006. Lo scopo della normativa è la tutela della persona fisica in virtù della 'fisiologica' sperequazione dei suoi poteri contrattuali riferiti a quelli del professionista, parte contrattuale più avveduta e più forte, in quanto abitualmente svolge attività di impresa.

Si deve aggiungere che la persona giuridica, per la sua stessa struttura organizzativa, che presuppone una particolare conoscenza delle norme giuridiche, e per le modalità operative degli organi sociali,non può essere parificata alla persona fisica che occasionalmente,al di fuori di attività di impresa, conclude il contratto, Tale diversità di posizioni giustifica la diversità di tutela.

4. La Corte di appello ha fatto corretta applicazione di tali principi, sul rilievo che il leasing stipulato dalla Gastassi Service s.a.s. società di servizi assicurativi, avente ad oggetto un'autovettura, non poteva che essere considerato diretto, in assenza di elementi probatori contrari, alla dotazione di un bene utilizzabile per lo svolgimento dell'attività imprenditoriale.

Inoltre non è necessario che il bene o servizio oggetto del contratto sia anche oggetto dell'attività di impresa, ma è sufficiente che sia funzionale allo svolgimento dell'attività di impresa.

5. Con il terzo motivo viene denunziata violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex articolo360 n° 3 CPC in quanto, per il principio dell'autonomia e della specificità dei contratti e della buona fede del terzo, la tutela del consumatore deve essere estesa al fideiussore che possiede il requisito di consumatore, anche se il debitore principale è una persona giuridica.

6. Il motivo è infondato.

L'originaria formulazione dell'articolo 1469 bis CC, ora modificata dall'articolo 33 'Codice Consumo', qualificava come contratti dei consumatori quelli aventi ad oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi e tale definizione mal si conciliava con il contratto di fideiussione, la cui causa è quella di garantire l'adempimento dell'obbligazione altrui. La dottrina prevalente ha ritenuto applicabile la disciplina della tutela del consumatore anche al contratto di fideiussione che garantisce un contratto del consumatore, in considerazione dello scopo economico unitario cui volgono i due contratti.

In tal senso si è pronunziata anche la Corte di giustizia Comunità Europea con la sentenza del 17/03/1998, a seguito di una richiesta di interpretazione pregiudiziale della direttiva del Consiglio del 20/12/1985 n. 85/77/CEE in materia di contratti negoziati fuori dai locali commerciali.

La Corte Europea ha affermato che il contratto di fideiussione ricade nell'ambito di applicazione della direttiva, sul rilievo che la mancanza di una norma sui contratti collegati non è sufficiente per escluderli dall'applicazione della disciplina, precisando però che la disciplina di tutela è applicabile solo quando il contratto principale ai configuri come atto di consumo.

Ha escluso quindi l'applicabilità della tutela del consumatore quando il contratto di fideiussione sia concluso da una persona fisica che non agisce nell'ambito di un'attività professionale, ma a garanzia di un debito contratto da un soggetto che agisce nell'ambito della sua attività professionale.

7. Tale linea interpretativa è stata seguita anche da questa Corte di legittimità, con l'ordinanza n° 13643/2006, che ha affermato che nell'ipotesi di fideiussione che accede a contratti bancari deve ritenersi sussistente il requisito oggettivo per l'applicabilità della disciplina delle clausola abusive in ragione del collegamento contrattuale che intercorre tra il contratto costitutivo del debito principale garantito e quello costitutivo dell'obbligazione fideiussoria.

Quanto al requisito soggettivo di applicabilità della medesima disciplina, la qualità del debitore principale attrae quella del fideiussore ai fini della individuazione del soggetto che deve rivestire la qualità di consumatore.

8. Tale interpretazione, seguita dai giudizi di appello, è condivisa da questa Corte.

Il contratto di fideiussione rientra nella categoria dei contratti collegati che ricorre quando due o più contratti, che mantengono la loro autonomia causale, hanno come fine la realizzazione di un'unica operazione economica.

Il contratto di fideiussione garantisce l'adempimento dell'obbligazione altrui attraverso la personale obbligazione del fideiussore verso il creditore e l'obbligazione principale e quella fideiussoria, benché tra loro collegate mantengono una loro individualità non soltanto soggettiva, ma anche oggettiva, in quanto la causa fideiussoria è fissa ed uniforme, mentre l'obbligazione garantita può fondarsi su qualsiasi causa idonea al raggiungimento dello scopo cui tendono le parti.

In relazione al profilo soggettivo, infatti, bisogna rilevare come una delle caratteristiche dell'obbligazione fideiussoria è l'accessorietà, vale a dire che, indipendentemente dalle caratteristiche soggettive della persona che si impegna nei confronti del creditore principale, la garanzia personale che viene prestata è subordinata al debito principale cui accede. In concreto l'oggetto della obbligazione fideiussoria si determina 'per relationem' sulla base del contenuto dell'obbligazione principale e per volontà stessa del legislatore (articolo 1939 CC) la fideiussione non è valida se non è valida l'obbligazione principale.

Il legislatore, nel disciplinare le caratteristiche di tale fattispecie, agli articoli 1939, 1941 e 1945 CC, ha reso evidenti i tratti del fenomeno del collegamento negoziale, intercorrente tra il debito principale e l'obbligazione fideiussoria, collegamento qualificabile come: necessario, unilaterale e funzionale.

Ciò comporta che i distinti negozi posti in essere dalle parti, pur conservando ciascuno la propria individualità, siano obbiettivamente unificati da un nesso di interdipendenza che per volontà del legislatore stesso è tale da determinare che ogni vicenda del contratto principale si comunica al contratto subordinato e non viceversa.

9. L'indefettibile corollario di tale affermazione risiede nella considerazione che la struttura funzionale della fideiussione si sostanzia in un rafforzamento 'accessorio' del debito principale che viene garantito, in maniera tale da non poter non porre lo stesso rapporto principale come punto di riferimento per l'indagine circa l'applicazione o meno della normativa speciale disciplinata dal codice del consumo. Non si può ricondurre la vicenda in esame nell'alveo dei rapporti di natura fideiussoria, se non avendo riguardo alla suddetta natura accessoria dell'obbligazione di garanzia che viene prestata rispetto all'obbligazione principale e quindi alla 'vis' attrattiva che quest'ultima esercita nei suoi confronti.

Pertanto nell'ipotesi in cui le qualità soggettive del fideiussore fossero prese in considerazione al fine dell'esegesi circa l'applicazione o meno dell'articolo 33 Codice Consumo, non si tratterebbe di un obbligazione fideiussoria, ma di una forma atipica di garanzia personale che però, nel caso di specie non ricorre.

10. In presenza di un contratto di fideiussione è all'obbligazione garantita che deve riferirsi il requisito soggettivo ai fini dell'applicabilità della specifica normativa in materia di tutela del consumatore, attesa l'accessorietà dell'obbligazione del fideiussore all'obbligazione garantita.

Il ricorso è rigettato con spese alla soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di cassazione liquidate in Euro 1.700,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese generali ed accessori come per legge.

 

Corte di Cassazione Sezione 1 Civile

Sentenza del 25/11/2010, n°23974

Data Udienza: 20/10/2010

Presidente Sezione: CARNEVALE Corrado - Relatore: RAGONESI Vittorio

Attore: BANCA DI ROMAGNA S.P.A.

Convenuto: FERRI MONICA

Pubblico Ministero: PRATIS PIERFELICE

REPUBBLICA ITALIANA - IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado, Presidente - Dott. CECCHERINI Aldo, Consigliere - Dott. MACIOCE Luigi, Consigliere - Dott. DOGLIOTTI Massimo, Consigliere - Dott. RAGONESI Vittorio, relatore Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6835-2009 proposto da:

BANCA DI ROMAGNA SPA (C.F. (OMESSO), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE QUATTRO FONTANE 10, presso l'avvocato GHIA LUCIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato BARTOLOTTI ANGELO, giusta procura in calce al riorso;

- ricorrente -

contro

FE. MO. EREDE DI FE. PI. , ZU. FL. ;

- intimati -

nonché da:

FE.MO. (C.F. (OMESSO)), ZU.FL. (C.F. (OMESSO), nella qualità di eredi di FE.PI, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA SALARIA 332, presso DE MAJO GIUSEPPE, che le rappresenta e difende unitamente all'avvocato GHIGI ROMUALDO, giusta procura in calce al contro ricorso e ricorso incidentale;

- contro ricorrenti e ricorrenti incidentali -

contro

BANCA ROMAGNA SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE QUATTRO FONTANE 10, presso l'avvocato GHIA LUCIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato BARTOLOTTI ANGELO, giusta procura in calce al ricorso principale;

- contro ricorrenti al ricorso incidentale -

avverso la sentenza n° 1872/2008 - CORTE D'APPELLO BOLOGNA, depositata il 11/11/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/10/2010 dal Consigliere Dott. VITTORIO RAGONESI;

udito, per la ricorrente, l'Avvocato PIVANTI ANDREA, con delega, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale, rigetto del ricorso incidentale;

udito, per i contro ricorrenti e ricorrenti incidentali, l'Avvocato DE MAJO che ha chiesto il rigetto del ricorso principale, accoglimento dell'incidentale e deposita nota spese;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS PIERFELICE che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Ravenna (in data 24.11.1997) emetteva, su ricorso della Banca Romagna SPA, decreto ingiuntivo n° 321 per il pagamento della complessiva somma di lire 1.124.533.063, dovuta per scoperti bancari, residui pagamenti di contratti di finanziamento e fideiussioni a garanzia di mutui, oltre interessi vanamente determinati, a carico di Fe.Pi, quale debitore principale, e Zu.Fl. , quale fideiussore.

Esponeva, inoltre, la banca ricorrente che Zu.Fl. si era resa garante dei debiti contratti da Fe.Pi. in forza:

a) di fideiussione 17.5.1984 fino a concorrenza di lire 200.000.000 a garanzia dei debiti derivanti dal C/C (OMESSO);

b) di fideiussione (OMESSO), originariamente "omnibus", ma successivamente limitata a lire 1.625.000.000.

Avverso tale decreto proponevano opposizione entrambi gli ingiunti deducendo l'assenza di prova dell'entità del credito preteso nel confronti del debitore principale Fe.Pi. ; in particolare:

contestavano la validità della documentazione bancaria per gli scoperti di conto corrente; negavano l'esistenza dei crediti della banca per residui finanziamenti;

contestavano l'esistenza del debito per fideiussione ad un mutuo bancario rilasciato dalla Bi.Ba. spa, ritenuto di scopo, il cui importo era stato illegittimamente utilizzato dalla ba.Ro. per estinguere delle passività estranee allo scopo del mutuo;

deducevano la nullità della fideiussione omnibus della Zu. ;

sostenevano in relazione alle fideiussioni rilasciate dalla Zu. la violazione delle regole di buona fede da parte della banca e contestavano che questa aveva continuato a far credito al debitore principale nonostante le di lui difficoltà economiche.

In ragione di tutto ciò gli opponenti chiedevano, quindi, dichiararsi la nullità e comunque revocarsi il decreto ingiuntivo opposto nonché, in via riconvenzionale, dichiararsi la nullità e/o l'inefficacia degli atti con i quali la banca aveva destinato la somma erogata da Bi. in difformità dallo specifico scopo del mutuo con conseguente condanna della banca ricorrente al risarcimento del danni.

Si costituiva la Banca Romagna SPA, contestando tutti gli assunti e rilevando, quanto alle somme mutuate da Bi.Ba, che era stato lo stesso Fe. ad impartirle le specifiche disposizioni in ordine all'impiego delle somme con scrittura (OMESSO) che produceva in copia. Tale produzione, così come quelle di altri documenti già in atti e quelle ulteriormente effettuate dalla banca opposta, veniva dagli opponenti contestata sotto il profilo della loro non conformità all'originale ex articolo 2719 C.C. e la successiva produzione dell'originale della scrittura (OMESSO) sopra citata veniva ulteriormente opposta con disconoscimento sia della sottoscrizione a firma apparente di Fe.Pi. sia sotto il profilo della falsità del contenuto per abusivo riempimento dello stesso in difformità dalle risultanze del contratto di mutuo con Bi. e dallo scopo del medesimo.

Si procedeva quindi a procedimento di verificazione della scrittura nonché all'espletamento di CTU tecnico-grafologica ed a CTU tecnico contabile.

Il Tribunale di Ravenna respingeva l'opposizione e confermava l'opposto decreto ingiuntivo con condanna degli opponenti al pagamento delle spese processuali.

Riteneva, invero, il primo giudicante che:

a) quanto agli scoperti del conti correnti, la banca aveva offerto, già in sede di ricorso, idonea documentazione;

b) egualmente era a dirsi, quanto al contratto di finanziamento, la cui erogazione non era stata contestata;

c) relativamente alla fideiussione rilasciata dalla Banca Romagna SPA vi era prova del contratto e della richiesta di pagamento;

d) Zu. Fl. doveva rispondere in base alle fideiussioni prestate;

e) l'indicazione contenuta nel mutuo Bi. quanto a destinazione della somma era generica e come tale comprensiva anche della "ricerca di denaro contante per il ripianamento dei debiti dell'imprenditore"; in ogni caso era stata accertata l'autenticità della sottoscrizione della scrittura (OMESSO) e l'apposizione della stessa allorché la scrittura già conteneva l'autorizzazione alla Banca "a trattenere la somma a fronte delle seguenti linee di credito", da intendersi come espressa autorizzazione all'utilizzo della somma mutuata a copertura dei suoi debiti, con conseguente titolarità della Banca Romagna SPA alla sottoscrizione della scrittura (OMESSO) e l'apposizione della stessa allorché la scrittura già conteneva l'autorizzazione alla Banca "a trattenere la somma a fronte delle seguenti linee di credito", da intendersi come espressa autorizzazione all'utilizzo della somma mutuata a copertura dei suoi debiti, con conseguente titolarità della Banca Romagna SPA alla movimentazione della somma in questione a sua discrezione".

Avverso tale decisione, il Fe. e la Zu. proponevano tempestivo appello, con il quale riproponevano tutte le eccezioni e domande già avanzate in primo grado e, quanto ai rapporti di conto corrente, ulteriormente eccependo la nullità dell'applicato anatocismo trimestrale degli interessi passivi.

Si costituiva la Banca Romagna SPA contrastando tutti i motivi del proposto gravame.

La Corte Appello Bologna, con sentenza n. 1872/08, in parziale riforma della sentenza impugnata revocava il decreto ingiuntivo opposto e rigettava la domanda riconvenzionale del Fe.

Avverso la detta sentenza ricorre per cassazione la Banca Romagna sulla base di sei motivi cui resistono con contro ricorso Fe.Mo, quale erede di Fe.Pi. e Zu.Fl, che propongono altresì ricorso incidentale affidato a tre motivi cui resiste con contro ricorso il Cr. Ro. spa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La banca ricorrente, con il primo motivo di ricorso, contesta la ritenuta nullità' delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi e di quelle di rinvio alle condizioni praticate usualmente su piazza per la determinazione del tasso.

Con il secondo motivo deduce l'erroneità della sentenza per non avere ritenuto adeguatamente provato il credito della banca in base alla produzione degli estratti conto dell'ultimo decennio, in presenza di una generica contestazione di controparte.

Con il terzo motivo assume che essa banca non aveva alcun obbligo di conservare la documentazione relativa a singole operazioni trascorsi dieci anni dal compimento delle stesse.

Con il quarto motivo sostiene che, nel caso di specie, in assenza di impugnazione ex articolo 1832 C.C. da parte del correntista, questi aveva l'onere di fornire la prova del fondamento delle proprie eccezioni.

Con il quinto motivo deduce l'errore motivazionale in cui è incorso il giudice nello stabilire che il CTU nel calcolo degli interessi dovesse partire da un valore pari a zero alla data del 1.1.1993.

Con il sesto motivo censura la sentenza impugnata laddove la stessa ha ritenuto non provata l'erogazione del mutuo di £ 180 milioni a favore nel Fe. ritenendo inadeguata la documentazione fornita in proposito.

Le ricorrenti con il primo motivo di ricorso incidentale contestano la decisione della Corte d'Appello laddove ha respinto la domanda risarcitoria relativa all'abusivo utilizzo da parte della Banca Romagna della somma di lire 1.295.950.000 erogata dalla Bi.ba. per estinzione di attività estranee alla attività imprenditoriale del Fe.

Con il secondo motivo affermano la erroneità della decisione laddove ha escluso la legittimazione del Fe. ad agire quale mandante contro la mandataria Banca Romsgna che aveva riempito contra pacta il foglio contenente il contratto parzialmente sottoscritto in bianco.

Con il terzo motivo contestano l'intervenuta pronuncia di compensazione delle spese di giudizio.

I ricorsi vanno preliminarmente riuniti ex articolo 335 C.P.C.

Il primo motivo del ricorso principale è, per certi versi, inammissibile e, per altri infondato.

Per quanto concerne, infatti, la capitalizzazione trimestrale degli interessi la Corte d'Appello ha dato atto che la banca si era doluta del fatto che detta censura era stata proposta tardivamente solo con l'atto d'appello, ma ha correttamente ritenuto tale doglianza infondata alla luce della ormai costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto da una banca nei confronti di un correntista, la nullità della clausola del contratto di conto corrente bancario, che prevede la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente sul saldo passivo, in quanto stipulata in violazione dell'articolo 1283 C.C è rilevabile d'ufficio, ai sensi dell'articolo 1421 C.C anche in sede di gravame, qualora vi sia contestazione, ancorché per ragioni diverse, sul titolo posto a fondamento della domanda degli interessi anatocistici, rientrando nei compiti del giudice l'indagine in ordine alla sussistenza delle condizioni dell'azione. In tale giudizio, infatti, il creditore assume la veste sostanziale di attore, sicché, laddove l'opponente abbia contestato l'ammontare degli interessi dovuti, il giudice, nel determinare tali interessi, dovendo utilizzare il titolo contrattuale posto a fondamento della pretesa, è tenuto a rilevare d'ufficio la nullità dalla quale il negozio sia affetto. (Cassa<ione Sentenza n° 21141/2007; Cassazione Sentenza n° 4853/2007).

Tale motivazione non risulta adeguatamente censurata nel primo motivo del ricorso principale per come la censura risulta dal quesito formulato ai sensi dell'articolo 366 bis C.P.C ove si pone esclusivamente la domanda relativa alla nullità o meno delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi anche se inserite in contratti anteriori alla entrata in vigore della Legge n° 154/1992, senza alcun riferimento alla inammissibilità del motivo d'appello di cui si fa cenno solo nel motivo.

Il motivo in esame censura, poi, come risulta dall'appena citato quesito, la pronuncia della Corte d'Appello che ha ritenuto la nullità dei patto sugli interessi anatocistici.

Tale censura è infondata alla luce della ormai costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente bancario passivi per il cliente, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n° 425/2000, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'articolo 76 Costituzione il D.LGS n° 342/1999, articolo 25, comma 3, il quale aveva fatto salva la validità e l'efficacia - fino all'entrata in vigore della delibera C1CR di cui al medesimo articolo 25, comma 2 - delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, siffatte clausole, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sono disciplinate dalla normativa anteriormente in vigore. Le stesse, pertanto, sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell'articolo 1283 C.C, perché basate su un uso negoziale, anziché su un uso normativo, mancando di quest'ultimo il necessario requisito soggettivo, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, per la convinzione che il comportamento tenuto è giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una

norma che già esiste o che si reputa debba fare parte dell'ordinamento giuridico. Infatti, va escluso che detto requisito soggettivo sia venuto meno soltanto a seguito delle decisioni della Corte di Cassazione che, a partire dal 1999, modificando il precedente orientamento giurisprudenziale, hanno ritenuto la nullità delle clausole in esame, perché non fondate su di un uso normativo, dato che la funzione della giurisprudenza è meramente ricognitiva dell'esistenza e del contenuto della regola, non già creativa della stessa, e, conseguentemente, in presenza di una ricognizione, anche reiterata nel tempo, rivelatasi poi inesatta nel ritenerne l'esistenza, la ricognizione correttiva ha efficacia retroattiva, poiché diversamente, si determinerebbe la consolidazione "medio tempore" di una regola che avrebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze che, erroneamente presupponendola, l'avrebbero creata. (Cassazione, Sezioni Unite n° 21095/2004; Cassazione n° 19822/2005; Cassazione n° 10599/2005; Cassazione n° 2101/2005; Cassazione n° 10376/2005; Cassazione n° 6514/2007; Cassazione n° 15218/2007).

La seconda censura contenuta nel primo motivo di ricorso riguarda la determinazione, ritenuta nulla dalla Corte d'Appello, del tasso d'interesse alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza.

Assume, a tale proposito, il ricorrente che non si è tenuto conto che la clausola era stata stipulata prima della entrata in vigore della Legge n° 154/1992.

Anche tale doglianza è infondata.

Questa Corte ha affermato a più riprese che in tema di contratti bancari, nel regime anteriore alla entrata in vigore della disciplina dettata dalla legge sulla trasparenza bancaria n° 154/1992, poi trasfusa nel testo unico n° 385/1993, la clausola che, per la pattuizione di interessi dovuti dalla clientela in misura superiore a quella legale, si limiti a fare riferimento alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, è priva del carattere della sufficiente univocità, per difetto di univoca determinabilità dell'ammontare del tasso sulla base del documento contrattuale, e non può, quindi, giustificare la pretesa della banca al pagamento di interessi in misura superiore a quella legale quando faccia riferimento a parametri locali, mutevoli e non riscontrabili con criteri di certezza (e non anche quando rimandi ad una disciplina stabilita su scala nazionale in termini chiari e vincolanti, circostanza che non ricorre nel caso di specie (ex plurimis Cassazione n° 4094/2005; n° 870/2006; n° 4490/2002; n° 13823/2002; n° 9465/2000).

Il secondo motivo del ricorso è inammissibile.

Il quesito formulato ai sensi dell'articolo 366 bis C.P.C è, infatti, del tutto inadeguato a non rispettoso dei criteri stabiliti dal codice di procedura civile.

Lo stesso, infatti si limita ad interrogare questa Corte su quale sia l'onere probatorio che incombe alla banca per dimostrare giudizialmente il proprio credito in relazione ad un rapporto di conto corrente non oggetto di contestazione da parte del correntista, quando era, invece, onere della banca ricorrente formulare il principio di diritto che riteneva applicabile in riferimento alla fattispecie concreta.

Il terzo motivo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente e si rivelano infondati.

La Corte d'appello ha correttamente ritenuto che la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi e di quella di determinazione del tasso in base agli usi di piazza comportava per la Banca l'onere di provare l'effettiva entità del proprio credito non essendo a tal fine sufficiente la produzione dei saldo conto come avvenuto nella specie.

Tale affermazione e' del tutto conforme all'orientamento espresso da questa Corte secondo cui "una volta esclusa la validità della clausola sulla cui base sono stati calcolati gli interessi, soltanto la produzione degli estratti a partire dall'apertura del conto corrente - considerato che, in virtù della unitarietà del rapporto, da tale momento decorre la prescrizione del credito di restituzione per somme indebitamente trattenute dalla banca a titolo di interessi (Cassazione n° 2262/1984) - consente, attraverso una integrale ricostruzione del dare e dell'avere con l'applicazione del tasso legale, di determinare il credito della banca, sempreché la stessa non risulti addirittura debitrice, una volta depurato il conto dalla capitalizzazione degli interessi non dovuti. Allo stesso risultato, evidentemente, non si può pervenire con la prova del saldo, comprensivo di capitali ed interessi, al momento della chiusura del conto. Infatti, tale saldo non solo non consente di conoscere quali addebiti, nell'ultimo periodo di contabilizzazione, siano dovuti ad operazioni passive per il cliente e quali alla capitalizzazione degli interessi, ma a sua volta discende da una base di computo che è il risultato di precedenti capitalizzazioni degli interessi" (Cassazione n° 10692/2007 – Cassazione n° 16679/2009).

D'altra parte, per ciò che concerne la mancata contestazione degli estratti conto da parte del correntista poi fallito, si deve premettere che è' principio pacifico quello secondo cui l'approvazione dell'estratto-conto rende incontestabili soltanto le registrazioni a debito e credito nella loro realtà contabile, ma non anche l'efficacia e la validità dei rapporti sostanziali. Peraltro, solo ove sia accertata l'efficacia e la validità di tali rapporti e, cioè nel caso che qui interessa, della clausola che fissa gli interessi in misura extralegale, "l'approvazione ripetuta di estratti-conto può valere, per la sua natura confessoria, a far ritenere che il concreto ammontare degli interessi computati dalla banca sia avvenuto in conformità del criterio dettato in via preventiva con la clausola" (Cassazione n° 4605/1996). In altre parole, la congruenza degli interessi computati con la clausola che ne ha stabilito il criterio di determinazione, non implica la validità di tale clausola, che anzi, per quanto detto, va nel caso di specie esclusa.

Deve concludersi, quindi, che, a seguito della contestazione da parte del Fe. delle clausole in esame relative alla determinazione degli interessi, spettava alla banca fornire la prova dell'andamento dei rapporti di conto corrente a partire dalla loro origine.

Tutto ciò porta a negare ogni fondamento al quarto motivo di ricorso In tale contesto risulta la totale infondatezza anche del terzo motivo.

La banca ricorrente confonde l'onere di conservazione della documentazione contabile con l'onere della prova del credito.

Il fatto di non essere tenuta a conservare le scritture contabili oltre i dieci anni dalla loro ultima registrazione non esonera la parte che vi è tenuta dall'onere di provare il proprio credito.

Nel caso di specie, pertanto, incombendo tale onere alla banca, il fatto che la stessa a suo dire - non abbia conservato le scritture contabili relative ai rapporti di conto corrente per il periodo anteriore al 1993, ricade esclusivamente a suo danno non essendo in condizione di provare i propri crediti.

Il quinto motivo è infondato.

La banca non ha provato per le ragioni dianzi esposte che alla data del 1.1.1993, cui si riferisce il primo estratto-conto riportato in giudizio, il credito riportato in detto estratto conto e conclusivo dell'andamento dei conti per gli anni pregressi fosse quello effettivo in ragione della più volte citata nullità delle clausole sugli interessi. Del tutto correttamente pertanto la Corte d'appello ha azzerato le dette risultanze in quanto non provate e disposto che il calcolo dei rapporti di dare ed avere venisse calcolato dal CTU a partire dalla detta data del 1993 partendo da zero.

Il sesto motivo è inammissibile.

Tale motivo contiene diverse censure ove si deducono una serie di errori di diritto:

a) la Corte d'Appello avrebbe errato a non ritenere che la richiesta di prestito costituiva il documento con cui si è stipulato un contratto a mezzo corrispondenza;

b) si sarebbe erroneamente negato valore probatorio al prospetto del piano di ammortamento che doveva ritenersi parte integrante del contratto di mutuo;

c) si sarebbe invertito l'onere della prova laddove si è ritenuto che fosse a carico della banca fornire la prova del contratto di mutuo estinto.

Di tali questioni non si rinviene peraltro alcuna traccia nel quesito di diritto formulato ai sensi dell'articolo

366-bis C.P.C ove viene genericamente chiesto sera fronte della produzione del contratto di mutuo (ma la corte d'appello ha negato che si trattasse del contratto) e alla produzione in copia fotostatica di documenti, fosse corretto negare la sussistenza della somma erogata a titolo di mutuo.

Il quesito, così come genericamente formulato, non risponde pertanto ai requisiti di cui all'articolo 366 C.P.C non riflettendo il contenuto delle censure contenute nel motivo e non contenendo la formulazione di alcun principio di diritto limitandosi in sostanza a chiedere a questa Corte se la decisione del giudice di seconde cure era corretta o meno.

Venendo all'esame del ricorso incidentale si rileva l'inammissibilità del primo motivo.

Esso difetta infatti, di quesito mentre per l'ipotesi di doglianza di cui all'articolo 360 C.P.C n.° 5, quale quella di specie, il ricorso deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione per cui la relativa censura; in altri termini deve cioè contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare in certezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. (Cassazione Sezioni Unite n° 20603/2007).

Il secondo motivo è anch'esso inammissibile.

La sentenza impugnata contiene in ordine alla domanda riconvenzionale presentata dalle ricorrenti incidentali diverse rationes decidendi: in primo luogo, la mancanza di legittimazione del Fe. a dedurreil mancato rispetto della destinazione del mutuo allo scopo concordato; in secondo luogo che, comunque, non vi era la prova che fosse stata violata la destinazione di scopo perché, essendo il Fe. un imprenditore persona fisica, non risultava precisato né provato quale dei conti correnti sui quali erano state riversate le somme del mutuo fossero destinati all'attività imprenditoriale e quali fossero quelli personali; in terzo luogo, che non risultava in alcun modo provato il dedotto abusivo riempimento del contratto.

II motivo non censura in alcun modo la seconda e la terza ratio e ciò è riflesso anche nel quesito ex articolo 366 bis C.P.C ove si pone solo la domanda relativa alla legittimazione, dando però per scontato che vi fosse stato il riempimento contra pacta della scrittura; circostanza esclusa come detto dalla Corte d'Appello e non censurata.

Il terzo motivo è inammissibile.

La Corte d'Appello ha correttamente motivato la compensazione delle spese in base all'esito complessivo del giudizio ove vi è stata soccombenza reciproca.

In conclusione dunque il ricorso principale va rigettato, mentre quello incidentale va dichiarato inammissibile. La reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

 

Riunisce i ricorsi e rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale; compensa le spese di giudizio.

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